Gio. Ott 16th, 2025
Una genesi tutta da chiarire. Il ruolo Usa/Trump nel cessate il fuoco. Prospettive per il nuovo Medio Oriente. Sarà vera pace o l’ennesima tregua armata? 

 
Piaccia o meno ai numerosi tifosi da stadio, una cosa va detta: Trump è riuscito in qualcosa che Biden e i democratici con ogni probabilità non avrebbero mai ottenuto. Si deve riconoscere che l’operazione che ha portato alla cessazione del fuoco su Gaza è stata possibile solo grazie alle buone relazioni da sempre intercorse tra il vulcanico Donald Trump e il determinato Bibi Netanyahu, cui ha dato un aiuto fondamentale la potente lobby ebraica della East Coast, ben orchestrata da quel Jared Kushner, prima obamiano e poi trumpiano per grazia di talamo coniugale.
Quanto il risultato delle trattative che hanno permesso la conclusione delle attività militari sia da ascrivere in percentuale alle capacità diplomatiche dell’amministrazione Trump e quanto alle necessità divenute improcrastinabili per il governo Netanyahu, sarà argomento di future valutazioni in sede storica. Anche se ci vorrà molta ma molta obiettività, merce piuttosto rara quando di mezzo c’è il giudizio sulle responsabilità che hanno causato decine di migliaia di vittime innocenti e la completa distruzione di una città. 
Mettendo da parte la bilancia di precisione, è verosimile ipotizzare che le cose siano andate secondo lo schema che segue.
Un uomo, che a fasi alterne è al potere in Israele da oltre due decenni, ad un certo punto si trova nel bel mezzo di vicende tutt’altro che commendevoli e rischia grosso, non solo dal punto di vista politico. Per tenere in piedi un governo che sia sufficientemente stabile e gli permetta di non finire sotto processo per fatti di corruzione è costretto a cercare alleati tra le frange più oltranziste del panorama politico israeliano. Lui, da sempre considerato un falco con pochi scrupoli, si trova a dover gestire personaggi come Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, chiamati a ricoprire importanti incarichi di governo e notoriamente molto più rapaci verso la causa palestinese. A dirla tutta, entrambi sono al vertice di movimenti che quotidianamente si rendono responsabili di condotte aggressive in molte zone della Cisgiordania, dove i coloni armati non hanno mai ricevuto ordini di sospensione delle loro attività illegittime ai danni dei contadini palestinesi (1).
La gestione politica di questi alleati che teorizzano la nascita della Grande Israele, secondo i dettami biblici cui le frange estremiste al governo si rifanno, inizia ad essere cosa difficile per il navigato Bibi. Anche in ragione del fatto che una larga maggioranza dell’opinione pubblica e dei riservisti (quest’ultimo blocco di un certo peso socio-politico in Israele) lo stanno pressando da tempo per dare un volto diverso allo stato di Israele. Purtroppo le alternative tra una Israele più o meno volenterosa nel risolvere l’annosa questione palestinese e quella perennemente in ostaggio del rivendicazionismo territoriale askenazita hanno mostrato tutta la loro precarietà e costretto Netanyahu a scegliere di stare dalla parte dei falchi più falchi, diventandone così l’esempio più palese da consegnare alla posterita’.
Nel mezzo di questa crisi di identità di Israele, accade quello che nessuno si aspetta. Con i massimi dirigenti del partito al potere a Gaza (Hamas) al riparo nel rifugio dorato di Doha, da dove partono puntualmente (sotto il controllo della Banca Centrale israeliana) le risorse finanziarie che tengono in piedi la vita nella Striscia, l’ala militare del partito o qualcosa di simile sferra un attacco mai visto in precedenza. Nessuno ne sa nulla, a parte i capi della milizia che, senza troppe difficoltà e con mezzi ridicoli se paragonati a quelli a disposizione dell’aggredito, riesce a penetrare per molti chilometri dentro Israele, uccidendo centinaia di persone e prendendo ostaggi. Nessuno sa nulla a Doha e – sembra – nemmeno tra i vertici del più potente apparato di intelligence al mondo, lo stesso che per anni è riuscito ad infiltrare Hamas con una certa disinvoltura. (2). 
Ma ciò che è ancora da comprendere si racchiude in una semplice riflessione che volge in inevitabile quesito: Cui prodest? A chi avrebbe potuto giovare un’azione assolutamente priva di senso, senza alcun auspicabile ritorno politico e militare? Forse ad Hamas per vedere liberati oggi un migliaio di palestinesi dalle galere israeliane o forse a chi aveva interesse che ci fosse escalation a tutti i costi? O forse ad entrambi? Una cosa è certa: ben pochi degli abitanti della Striscia di Gaza avrebbero sottoscritto una scelleratezza come quella del 7 ottobre, perché si sarebbero ben immaginati le conseguenze, così come se le sarebbero immaginate i vertici politici di Hamas. E allora, si può giungere a concepire la distruzione completa di una città e la morte di oltre settantamila persone solo per ottenere la liberazione di un migliaio di prigionieri? Qualche legittimo dubbio può attraversare la testa di chi ha ancora un minimo di raziocinio. 
Come era da immaginare le conseguenze non si sono fatte attendere: la risposta delle forze israeliane ricaccia gli aggressori entro il perimetro della Striscia nel breve giro di poche ore ed è l’inizio dell’inevitabile inferno sulla terra per la popolazione di Gaza City. Il resto, fino ad oggi, è lo stillicidio infinito di attacchi a senso unico, attuati dietro la copertura morale del diritto all’autodifesa di Israele. Nel frattempo la posizione interna di Netanyahu tende a consolidarsi in ragione della necessaria unità nazionale, che deve prevalere in una contingenza storica da molti definita come il secondo olocausto (3). Con il trascorrere dei mesi ed il perdurare della strategia della tabula rasa che non risparmia nulla e nessuno di Gaza, la posizione di Bibi torna ad essere instabile, anche perchè ai non pochi detrattori politici che lo incalzano da tempo si sono aggiunte centinaia di familiari ed amici dei prigionieri rapiti da Hamas, la cui unica speranza di tornare a casa è un accordo complessivo che ponga termine alla carneficina.
A gennaio, appena eletto alla presidenza USA, entra in gioco Donald Trump, il quale promette la fine della mattanza, un progetto fantascientifico per fare di Gaza la Costa Smeralda del Medio Oriente ed un complessivo riassetto dell’intera area mediorientale. Iniziano a circolare in rete rendering architettonici di pessimo gusto che esibiscono sontuosi residence, resort e alberghi sulle aree urbane di Gaza trasformate in montagne di macerie, sotto le quali giaciono migliaia di corpi senza vita che probabilmente non avranno nemmeno una degna sepoltura.
Le vittoriose teorie Maga, che avrebbero voluto gli USA impegnati a guardare dentro casa, le riscopriamo ennesima trovata elettorale buone per calmare i malumori dell’America più profonda, quell’enorme contenitore trumpista che sta nel mezzo tra la due coste oceaniche di impronta liberal e progessista. Ma alla radice, seppur con sfumature e approcci diversi, l’America ha un marchio di fabbrica che nessun suo presidente può ignorare: è il pensiero della frontiera che incarna l’essenza stessa dell’americano medio; il mito dell’uomo coraggioso e volitivo pronto a portare la luce della civiltà anche negli angoli più remoti della terra; l’idea messianica di rappresentare il migliore dei mondi possibili e di doverne far dono agli altri popoli. Non importa se servono bombe e sanzioni, perchè è il principio che conta. Questo è il modello che ha mosso i neocon, così come Clinton, Obama e Biden e che lascia forte traccia anche in Trump, nonostante la sua atipicità e volubilità.
A questa scia di pensiero unificante un po’ tutto il sistema americano, si sovrappone la personalità istrionica di un presidente fuori dagli schemi (chi mai avrebbe parlato di Riviera di Gaza nel mentre morivano migliaia di persone sotto i bombardamenti di quella città?) che si erge a demiurgo della pace, facendone una rappresentazione cinematografica in cui egli si narra salvatore delle sorti planetarie, e richiedendo senza troppo pudore l’assegnazione del Nobel per la pace. Le modalità di porsi all’attenzione che stigmatizzano l’uomo Trump sono solo un plus (forse inopportuno e stucchevole per alcuni ma magari necessario per altri) rispetto ad una linea di condotta sulle questioni internazionali, che è la medesima di sempre dalla fine della seconda guerra mondiale. In effetti, chi crede di vedere in Trump un alter in politica estera prende un abbaglio e i fatti lo stanno ampiamente dimostrando.
Giunti a questo punto della nostra riflessione, va però detto che sarebbe sbagliato, o quanto meno limitante, pensare che Trump si muova solo perchè spinto da motivazioni legate alla sua intima personalità. In realtà dietro ci sta un disegno ben preciso che vuole l’America impegnata a tornare come primo attore al centro delle questioni mediorientali, proprio in nome di quella dottrina Maga che forse è stata poco compresa da analisti un po’ distratti. Nella narrazione trumpiana della grande America non può non starci un ruolo centrale e di forte impronta decisionale sul teatro mediorientale, essendo inconcepibile un disimpegno di Washington in un quadrante strategico secondo solo al sud est asiatico e, forse, alle rotte artiche. Il Medioriente è e resta crocevia strategico di primaria importanza per una potenza marittima come gli Stati Uniti e se nelle corde di Trump ci sta che spetti all’Europa occuparsi per delega dell’Africa continentale, ben diverso è il discorso riguardo al quadrante geografico che va dallo Stretto di Hormuz, passa per Bab al Mandab, attraversa il Mar Rosso fino a Suez, per arrivare al Canale di Sicilia e infine a Gibilterra.
Le ragioni di questo vitale interesse hanno radici profonde e se una delle sette flotte USA che perimetrano l’intero globo si trova a Napoli, a poche ore di navigazione dalle coste orientali del Mediterraneo, è evidente che esiste più di una motivazione; Trump si guarderà bene dal depotenziare quel potente strumento e se sono diventati migliaia i licenziamenti nelle varie agenzie governative, ben pochi lo sono tra i ranghi della marina militare. 
Almeno quattro sono le ragioni.
Prima: attraverso i mari caldi mediorientali transita oltre il 50% degli approvvigionamenti energetici dell’intero pianeta.
Seconda: Israele, stato fratello per gli USA, è al centro di quell’area e la sua sicurezza è materia non negoziabile, al punto che Trump ha dovuto pure accettare malvolentieri un coinvolgimento diretto nella guerra dei dodici giorni contro l’Iran, nella quale è stato forse trascinato da Netanyahu, per poi averne in contropartita la firma a Sharm el Sheikh.
Terza: le petromonarchie arabe, garanzia di fiumi di denaro senza fine, non avendo voce in capitolo dal punto di vista militare, hanno in Washington un partner strategico irrinunciabile. E questo è fatto ben chiaro ad un uomo d’affari e sensibile al denaro come Trump, che ne prende debitamente nota, ben sapendo che a Gaza bisogna ricostruire completamente tutto (4). 
Quarta: gli USA sanno benissimo che per mantenere un livello riconoscibile di potenza egemone, anche in coabitazione con Russia e Cina, non possono lasciare spazio libero a chicchesia in quel quadrante, altrimenti scatterebbe il famoso principio del riempimento degli spazi vuoti. Nei quali potrebbero insinuarsi i rivali di sempre, ma anche potenze in fase di ricostruzione imperiale come la Turchia. Quest’ultima, in particolare, sta giocando al meglio tutte le carte che via via le sono capitate in mano, vedasi il ruolo di primo attore che ha assunto all’indomani della implosione siriana e quello ormai ampiamente consolidato nelle Libie. Senza dimenticare che si è tolta definitivamente di torno la spina sul fianco rappresentata dal PKK e guarda decisamente verso sud, dove c’è il serio rischio che nel prossimo futuro possa trovare terreno di scontro proprio con Israele.
Se c’è oggi una cosa certa è che il medioriente continua ad essere fonte di tensioni internazionali ma anche teatro di possibili accordi. Le prime sono consolidate da sempre, i secondi teneri germogli esposti a intemperie di ogni natura. In entrambi i macroattori sono i medesimi, seppur con qualche cambio di comparsa non proprio secondaria (è il caso della nuova dirigenza in Siria). È dunque verosimile credere che la “pace” firmata a Sharm el Sheikh (volutamente virgolettata) pare un’ipotesi su cui sarebbe estremamente azzardato scommettere anche una modesta somma. Affinchè la “pace” cinematografica di Sharm el Sheikh si trasformi in Pace Mediorientale ci vorrebbe una rivoluzione copernicana, traducibile nell’utopia messa in musica da John Lennon nella famosa canzone Imagine. Del resto a suggerirlo è la storia stessa, con Oslo 1993 e Camp David 2000 a ricordarci che la via per l’inferno è ancora lastricata di buone intenzioni. 
In questo teatro di una complessità disarmante, la cui soluzione sarebbe degna di un Nobel per la pace a vita, fare ipotesi di scenari futuri è dunque impresa da cartomanti più che da analisti di geopolitica. Il livello di entropia è talmente alto che la ben nota farfalla che muove le ali a Gaza provoca ripercussioni in Cisgiordania, così come il mal di pancia di un rabbino a Tel Aviv può causare esiti incendiari a Beirut o a Teheran. C’è chi sostiene che la soluzione adottata per mesi dal governo Netanyahu sia stata quella giusta: fare di Gaza un cumulo di macerie, annientando fisicamente e psicologicamente due milioni di palestinesi. Molto brutalmente si pensa che per almeno un bel po’ di anni nessuno avrà la forza di muovere un dito contro Israele. E quindi sarà la pace dopo la tempesta. Ma è davvero così? Verrà una volta per tutte accettato dall’intero mondo arabo (1,5 miliardi di persone) che la Palestina, intesa come entità statuale autonoma, non esisterà mai ? E che il popolo palestinese non potrà mai avere una propria terra se, non accettando il ruolo di paria  e la condizione di apartheid? 
Il perdurare di una logica “diplomatica” che non parta convintamente da questi interrogativi, da scolpire in una gigantesca stele da erigere sopra le teste di chi sarà chiamato a trattare, è destinata ad essere sepolta sotto le macerie della prossima Gaza. Che potrà essere Nablus o Hebron o Ramallah.
 

Fernando Volpi

17.10.2025

(1) Per un quadro esaustivo sulla condizione socio-politica di Israele si consiglia la lettura dei vari contributi presenti sul numero Limes, Israele contro Israele, 03/2023.