La diciannovesima legislatura repubblicana ha avuto il suo battesimo con un risultato elettorale che dovrebbe rimanere negli annali della storia politica italiana. Dovrebbe, visto che siamo ormai abituati a non doverci meravigliare di niente e ad aspettarci qualcosa di sempre più eclatante. Ma negli annali rimarrà senz’altro il fatto che da queste ultime elezioni uscirà la prima donna presidente del consiglio in Italia. Con ulteriore scorno per quella sinistra benpensante e “perfettina”, che da sempre bolla come retrogradi e maschilisti i partiti avversari.
Già, proprio la sinistra italiana, di certo la più incapace degli ultimi decenni, che è sempre stata molto brava a giudicare tutti senza mai riuscire a farsi un esame di coscienza per capire una cosa banale: a destra l’elettorato è rimasto grosso modo lo stesso di sempre (42%-44%), mentre loro sono i maggiori responsabili di un riflusso verso l’antipolitica, che questa volta li ha penalizzati. Basti pensare che si stima in circa il 10% la percentuale di voti persa dalla sinistra in senso lato, finiti nel grande mare della scelta astensionistica. Scelta che – non lo si dimentichi – solitamente penalizzava l’area di centrodestra.
Pertanto, un fattore che andrà ricordato con una certa enfasi sarà appunto la fine di un certo tipo di sinistra, quella delle feste dell’Unità, del miscuglio tra i rottami del postcomunismo e del post democristianismo, della macchina da guerra rappresentata dalla lega delle cooperative. Quella sinistra, con ogni probabilità, ha esalato il suo ultimo respiro, portando ad un altro record rimarchevole e senza precedenti: un italiano su tre ha scelto di disertare le urne.
Fatto questo breve excursus sui punti salienti della tornata elettorale, il passo successivo è quello di fare un’analisi su cosa riuscirà a fare il prossimo governo in uno dei peggiori momenti congiunturali degli ultimi decenni. Le risposte che il futuro governo Meloni dovrà dare per fronteggiare le sfide epocali all’ordine del giorno sembrano oggi ostacoli quasi insormontabili. Almeno per un esecutivo che vedrà molti ministri di prima nomina e che punta al ritorno della classe politica ai posti di responsabilità, dopo anni di guide tecniche. Quei tecnici tanto apprezzati dalla UE, contro la quale la Meloni ha spesso usato parole poco condiscendenti. Il rapporto con la UE sarà uno dei nodi che il prossimo governo dovrà affrontare: sicuramente non ci sarà uno scontro frontale, anche se la vicinanza ad un movimento come quello capeggiato da Orban fa della Meloni una sorta di possibile pecora nera in mezzo all’Europa. E questo non è proprio il massimo in un momento in cui i soldi dell’Europa a favore del PNRR sono determinanti per tenere in piedi la baracca.
Una cosa sembra certa fin da subito: se il rapporto con la UE potrebbe risultare poco sereno, lo stesso non sarà nei confronti degli USA, indipendentemente dal fatto se alla Casa Bianca nel dopo Biden ci sarà un democratico o un repubblicano. Il dominus d’oltreoceano rimarrà tale e, anzi, la propensione atlantica del nuovo governo italiano si rafforzerà proprio a scapito di scelte europee comuni, che in questa precisa fase storica dovrebbero essere prioritarie, a causa di quel conflitto che spariglia il poco di unità di intenti che ci si aspetterebbe. In realtà nessun accordo per una politica energetica comune per affrontare una crisi epocale, ma in compenso linea inflessibile nel riempire di armi l’Ucraina. Su questo aspetto la UE continua ad accettare il diktat di Washington, cui la signora Meloni si è prontamente uniformata già prima che si andasse alle urne. Come a dire: state tranquilli che il nuovo governo seguirà la linea di sempre.
Insomma, poco o nulla di nuovo sui temi di grande peso internazionale, al punto che l’unica figura che ha condotto un’opposizione al “vile affarista” finirà per riprenderne l’agenda della politica estera. Non a caso tra i papabili alla Farnesina c’è quel Giulio Terzi, già ambasciatore negli USA e ministro degli esteri del governo Monti tra il 2011 ed il 2013, mentre per il portafoglio della difesa si profila la figura di un atlantista doc come Antonio Tajani. Praticamente sempre lo stesso binario e ben poco – o nulla – rispetto a prima o a ciò che sarebbe stato se al posto della Meloni fosse andato Letta.
Forse vedremo qualche tentativo di recrudescenza sulle tematiche care alla pancia dell’Italia più profonda, tipo una maggior attenzione al tema della sicurezza nei grandi centri urbani, sempre più alla mercé della malavita, oppure una stretta sulle politiche dell’accoglienza. Ci permettiamo comunque di avere dei dubbi anche su questa linea, non tanto per sfiducia pregiudiziale, bensì perché siamo stati a suo tempo attenti testimoni di proclami solenni sul giro di vite che ci sarebbe stato in materia di sicurezza e integrità dei confini. Proclami finiti puntualmente nelle sabbie mobili del nulla di fatto per l’incapacita’ della destra italiana di uscire da quel recinto di timori e paure che da sempre si porta appresso per non essere additata come reazionaria e postfascista.
Una cosa è certa: da una parte, tra chi ancora ha fiducia nella politica, c’è molta speranza per quello che questo governo riuscirà a fare, mentre per chi ha maturato l’idea che all’Italia serva un colpo di reni risolutivo di ben altra natura, ben poco cambierà. Staremo e vedere.
Fernando Volpi
15.10.2022