Edgar P. Jacobs, con la serie intitolata “Le avventure di Blake e Mortimer”, è considerato – insieme a Hergé di Tintin – il padre nobile della cosiddetta Linea Chiara, ovvero un movimento culturale e stilistico proprio del fumetto che si sviluppa in un processo graduale a partire dalla fine degli anni ‘20 in Belgio e parallelamente in Francia. Gli autori della Linea Chiara dichiaravano attraverso il proprio lavoro che gran parte di ciò che si vede nei disegni di una storia a fumetti è solo una convenzione, un codice, una sorta di “accordo non scritto” fra l’artista e il lettore: l’ombreggiatura, per esempio, oppure le linee di contorno più spesse per creare la parvenza di tridimensionalità, o anche i “retini” adesivi per ottenere vari effetti di trama e testura. Queste convenzioni potevano essere tranquillamente eliminate dal fumetto, senza che la comprensibilità della narrazione ne risultasse danneggiata, fermi restando gli altri codici peculiari di quel nuovo e versatile mezzo di comunicazione: il balloon (o fumetto propriamente detto), che fa “parlare”, “pensare” o “gridare” i personaggi, secondo la forma che assume; le linee cinetiche, che trasmettono l’illusione del movimento; le onomatopee, che fanno “sentire” i rumori; etc.
Ecco dunque che sulla tavola originale in lavorazione di Jacobs, prima di giungere all’inchiostrazione, le matite venivano ripassate, cancellate, ripassate di nuovo e ri-cancellate così tanto che la mina e la gomma arrivavano a incidere e a usurare il cartoncino fino addiritttura a forarlo. Nel risultato finale la china è sottile e ha sempre lo stesso spessore; i volti e i corpi viventi, umani o animali che siano, sono ben definiti da contorni netti e senza ombreggiature; gli sfondi paesaggistici e architettonici sono estremamente realistici e sempre in piena luce; gli oggetti “di scena” (suppellettili, armi, attrezzi…) e i veicoli (auto, moto, aerei, navi, mezzi fantastici…) vengono disegnati con precisione maniacale; persino la “gabbia” della tavola è “chiara”, notandosi spesso un’estrema simmetria delle vignette che la compongono. Il fumetto rimaneva dunque visibilmente e volutamente “piatto”, bidimensionale, come non potrebbe essere altrimenti, nonostante ogni artificio grafico. Qualcuno ha voluto parlare di “giapponesismo”, avendo ben presente l’illustrazione “chiara” e “lineare” dei maestri nipponici del XIX secolo. La Linea Chiara, che arrivò alla sua piena maturità stilistica negli anni ‘40, fece scuola in Europa: viene senz’altro in mente il bolognese Magnus quando, dopo aver interrotto la collaborazione con Max Bunker, affinò il suo tratto, i suoi inchiostri, fino ad arrivare al disegno essenziale d’impronta franco-belga nella serie per adulti “Necron”, disegno spogliato di ogni convenzione ridondante (e “spogliato” trattandosi di “Necron” non potrebbe essere termine più esatto).
Quando Jacobs morì a 83 anni nel 1987 aveva lasciato incompiuta (c’era tutta la sceneggiatura con abbozzi di storyboard e matite) la seconda parte della storia di Blake e Mortimer Le 3 formule del professor Sato. Non era mai riuscito a terminarla perché per un decennio (dal 1972, pubblicazione della prima parte di Sato, al 1982) si era dedicato quasi esclusivamente alla sofferta scrittura e riscrittura (non si accontentava mai, esattamente come quando disegnava) di un’autobiografia illustrata, Un opéra de papier: Les mémoires de Blake et Mortimer, che a mio avviso rimane uno dei cardini della saggistica e della memorialistica sul fumetto (insieme a In trappola col Topo di Faeti, Prima pagare e poi ricordare di Scòzzari, Understanding Comics di McCloud e pochi altri titoli).
Cosa successe poi? Il grande Hergé, deceduto nel 1983, aveva espressamente vietato nel suo testamento ogni futura continuazione di “Tintin”; infatti di Tintin et l’Alph-Art, l’ultima e incompiuta storia, fu pubblicata postuma solo la sceneggiatura e lo storyboard in edizione de-luxe da collezionisti, operazione prettamente commerciale alla quale io aderii con entusiasmo, perché gli eredi si sono sempre rifiutati di farla completare da chicchessia. Jacobs non si era mai espresso in tal senso e dunque Sato fu conclusa nel 1990 grazie a Bob De Moor, che fece un commosso omaggio al Maestro di cui fu insuperato collaboratore, imitandone alla perfezione lo stile. Nel 1996, con L’affare Francis Blake di Jean Van Hamme e Ted Benoit, la serie creata da Jacobs nel 1946 riprese e dal 2000 (La macchinazione Voronov) le uscite si intensificarono, attestandosi su una media di un nuovo titolo ogni 18 mesi.
Nella loro vita editoriale le avventure di Blake e Mortimer del periodo di Jacobs furono sempre pubblicate prima a puntate sulle varie riviste per ragazzi e poi raccolte in volumi; successivamente questa “procedura” non sempre è stata rispettata, e soprattutto negli ultimi anni le storie sono arrivate ai lettori direttamente in formato libro; la prima avventura, Il segreto dell’Espadon, per decenni fu raccolta in due volumi, nonostante risultassero entrambi più lunghi rispetto allo “standard” franco-belga di 64 pagine; nel 1982, quando i diritti passarono da Éditions du Lombard a Éditions Blake et Mortimer, fu deciso che nelle future ristampe questa storia sarebbe stata “spalmata” su tre volumi di minore foliazione; per cui, se consideriamo la nuova tripartizione dell’Espadon e includiamo anche l’avventura speciale fuori-serie L’ultimo faraone (2019), realizzata fuori dai canoni grafici della Linea Chiara, i tomi della collezione “Blake & Mortimer” sono per ora arrivati a un totale di trenta (due altre storie sono già in lavorazione e dovrebbero presumibilmente vedere la luce fra il 2024 e il 2026); da questo conteggio sono esclusi Il raggio U (1943) e il suo tardivo seguito La freccia infuocata (2023), perché non hanno Blake e Mortimer come protagonisti, e i due romanzi brevi illustrati L’avventura immobile (1998) e La fidanzata del Dr. Septimus (2021), che non sono fumetti.
L’ultimo di questa lunga sequenza, uscito in Francia e in Italia (per i tipi di Alessandro Editore) alla fine del 2022 subito in volume senza passaggi su rivista (o, come dicono i francesi, en feuilleton), è Otto ore a Berlino, e porta la firma degli sceneggiatori José-Louis Bocquet e Jean-Luc Fromental e del disegnatore Antoine Aubin. Come in tante altre avventure di Blake e Mortimer (nella sola era jacobsiana pensiamo a Il segreto dell’Espadon, a Il marchio giallo, a L’enigma di Atlantide, a S.O.S. meteore, a La trappola diabolica, fino a Le 3 formule del professor Sato) anche in Otto ore a Berlino l’elemento fantascientifico si fonde con l’impianto spionistico, giallo, investigativo, thriller. Qui siamo in pieno filone fantapolitico. Le “otto ore” del titolo sono quelle che il presidente americano John F. Kennedy passò nella capitale tedesca il 26 giugno 1963, quando fece il celeberrimo discorso che si chiuse con Ich bin ein Berliner; non c’è da stupirsi della minuziosa collocazione storica dell’episodio, perché le avventure di Blake & Mortimer l’hanno sempre avuta (anche se quasi mai dichiarata), dal 1944 di Il bastone di Plutarco (2014) alla fine degli anni Sessanta (forse primi Settanta) di Sato (L’ultimo faraone è addirittura ambientato negli anni Ottanta/Novanta, ma la vicenda sembra quasi collocata in un continuum temporale alternativo); salta all’occhio che le avventure della serie non seguono un loro ordine cronologico interno parallelo alle uscite nelle edicole e in libreria, ma saltano “avanti e indietro” in un arco lungo 35 anni (e oltre considerando la storia fuori-serie), tanto che i protagonisti, da una pubblicazione all’altra, invecchiano, poi ringiovaniscono, poi invecchiano di nuovo, etc.; la stragrande maggioranza delle vicende è comunque collocata negli anni ‘50.
Nella Berlino del neonato muro un complotto ordito dai servizi segreti dell’URSS e della Germania Est in combutta con elementi militari statunitensi deviati al fine di mantenere un ordine mondiale basato sull’equilibrio del terrore atomico mira a sostituire il presidente Kennedy con un sosia identico, un “burattino umano”, un golem, un Doppelgänger creato con una perfetta plastica facciale e condizionato mentalmente grazie a una tecnologia chirurgico-medico-psichiatrica avveniristica; questo presidente fantoccio avrebbe dovuto indirizzare la politica mondiale secondo le linee guida dell’organizzazione segreta sovranazionale che lo aveva generato; anche lo scienziato Mortimer, catturato durante le indagini, dovrà subire sulla sua pelle la parte meno invasiva di questa procedura, quella psicologica, che ricorda molto da vicino il Trattamento Ludovico a cui viene sottoposto il “drugo” Alex nel film Arancia Meccanica di Stanley Kubrick; altro omaggio cinematografico è la brevissima comparsata di Alfred Hitchcock, in una sola vignetta, vestito da prete: alcune sequenze di Otto ore a Berlino possono infatti ricordare a tratti Il sipario strappato. Fra gli agenti della macchinazione ritroviamo il “cattivo a tutto tondo” Olrik, una sorta di mercenario sempre al soldo delle potenze dittatoriali – vere o inventate che siano – che alla fine degli episodi viene sempre sconfitto, ma mai definitivamente eliminato. A titolo di curiosità segnaliamo che sul personaggio di Olrik lo sceneggiatore Alfredo Castelli modellò Orloff, il “super-criminale” per eccellenza della serie bonelliana di “Martin Mystère”.
La storia ha un breve epilogo sei mesi dopo l’affaire berlinese: a Londra il capitano Blake dell’intelligence britannica e il suo amico e collega Mortimer sentono alla radio di un lussuoso club che Kennedy è stato assassinato a Dallas. Le conclusioni le deve trarre il lettore: è chiaro che lo schema sovversivo era molto più ramificato e non era stato del tutto sgominato.
Francesco Manetti
17.06.2023