Ven. Ott 4th, 2024

Se c’è un principio sul quale il liberalismo classico è riuscito a mettere tutti d’accordo è quello della divisione dei poteri sanciti in una carta costituzionale. Di fatto, l’esistenza di una costituzione, in quanto legge fondativa di uno stato, è garanzia formale di quel patto sociale tra governanti e governati, caro ai philosophes. O almeno così dovrebbe essere. Ciò significa che le regole organizzative del supremo ente,  per poter essere certe, dovrebbero venire codificate in una Costituzione. Non è un caso che nella storia più recente i moti insurrezionali ebbero come scopo primario l’ottenimento da parte degli insorti di una carta costituzionale che mettesse nero su bianco il sistema di potere delle monarchie, tenendo conto delle loro prerogative e con le limitazioni a favore di organi rappresentativi. Anche in Italia fu così, tant’ è che i primi moti pre unitari furono portatori di quel tipo di istanze.

Questa premessa ci è utile per analizzare un aspetto importante di una fase di forte crisi politica ed istituzionale che interessa lo stato di Israele, un pò ovunque considerato l’unico paese di matrice liberaldemocratica del Medio Oriente (1). Al di là delle problematiche che attanagliano la vita interna di Israele, le cui origini profonde vanno necessariamente indagate proprio nelle basi etnico-religiose di quello stato, la prima considerazione da fare è che Israele è un paese privo di una costituzione.

Potrà suonare strano ma così è: la declamazione occidentalocentrica elegge Israele come l’unico stato democratico in un’area geografica piena di dittature o sistemi autoritari, ma omette che proprio Israele manca del requisito essenziale per dirsi democrazia, secondo quei canoni che proprio l’occidente ha generato sin dalla rivoluzione americana prima e da quella francese poi. Il nemico giurato di Gerusalemme, quell’Iran fondamentalista e plurisanzionato, ha invece una carta costituzionale, che sarà anche frutto della shaaria, ma che legge scritta è. Al pari di un altro “stato canaglia” come Cuba (2). Per confutare quanto si dice non si può nemmeno coltivare come scusa il fatto che Israele è uno stato antico, marginale e privo di quel peso geopolitico, tale da potersi considerare uno stato da “operetta”. Israele non è certo il Vaticano e nemmeno il Principato di Monaco.

Lo stato di Israele ha celebrato pochi giorni fa il suo settantacinquesimo anniversario, dunque è stato modernissimo, così come definirlo marginale e privo di peso geopolitico sarebbe un banale errore. C’è di più: Israele è potenza militare di assoluto livello e rientra nella limitata cerchia di quei paesi dotati di un arsenale nucleare (3). Stiamo dunque parlando di una vera e propria potenza regionale che esercita un peso non indifferente sullo scacchiere politico mediorientale e del medioceano.

La mancanza di una costituzione non può non essere un vulnus importante per Israele. Non solo per le ragioni che abbiamo ricordato sopra, ma anche per la stessa natura dello stato ebraico, di fatto stato etnico-religioso, nato da un conflitto tra quelli che ancor oggi sono i due contendenti di una guerra strisciante: arabi musulmani ed ebrei. Seppur combattuta con enorme disparità di mezzi, il conflitto israelo-palestinese è a tutti gli effetti una guerra civile, la cui recrudescenza non ha cessato di provocare migliaia di vittime nel corso degli anni, anche dopo gli storici accordi di Oslo (4), di cui ricorre quest’anno il trentesimo anniversario.

In verità, questi ultimi mesi sono stati caratterizzati da un innalzamento della tensione all’interno dello stato ebraico, di cui non si ha memoria nel passato. Ad aumentarla è stata la protesta di gran parte della società civile israeliana nei confronti del governo Netanyahu, reo di voler indebolire la Suprema Corte (il massimo organo istituzionale di giustizia e di controllo) a favore di un accrescimento del potere esecutivo. Nel momento in cui si scrive la decisione del governo di riforma della Suprema Corte è stata temporaneamente sospesa, per evitare che il clima già surriscaldato degenerasse nei prodromi di un vero e proprio scontro tutto interno al mondo ebraico.

Della crisi israeliana che – si badi bene – non è declinabile solo come crisi israelo-palestinese, ma che è da considerare tutta interna al sistema socio-politico di quello stato, si è occupata anche la rivista Limes (5), che ha dedicato all’argomento un volume dal titolo significativo: “Israele contro Israele”. Già, perchè le tensioni che investono da mesi l’anima profonda di Israele sono in gran parte interne ad una società ormai radicalmente diversa rispetto a quella della fondazione e della difesa dalle aggressioni degli stati vicini. Il consolidamento di quello che l’ex presidente Rivlin definì nel 2015 la “tribalizzazione” (6) della società israeliana ha portato ad una radicalizzazione dello scontro politico e sociale interno, di cui oggi si pesano le conseguenze. La crisi politica ha prodotto qualcosa come 5 governi in 4 anni ed il ritorno al potere da parte di Netanyahu non ha fatto altro che acuire una situazione magmatica già in corso, grazie a scelte estremamente impopolari ed osteggiate anche all’interno dell’opinione pubblica non sfavorevole a “Bibi”.

Facendo leva sul vulnus dell’assenza di una costituzione formale, secondo le voci della protesta il navigato Netanyahu starebbe cercando di trasformare Israele in un paese autoritario come l’Ungheria o la Russia e tenterebbe di salvarsi da quasi certa condanna per fatti tutt’altro che commendevoli. Soprattutto per una personalità di primo piano di uno stato, che ogni anno assegna in forma solenne  il titolo di giusto fra le nazioni.

A parte le vicende politiche del governo Netanyahu, già di per sé piuttosto gravi, ciò che rileva maggiormente è la questione ben più sostanziale che vede un paese sempre più fortemente diviso. Alla profonda e arcinota divisione etnica e religiosa tra ebrei e musulmani si sono da tempo cristallizzate anche altre divisioni interne alla stessa società ebraica, che rendono il clima di Israele estremamente instabile.

Prima fra tutte è quella tra laici e religiosi, ovvero tra chi è portatore di una visione laica del rapporto tra individuo e stato e chi invece ne ha una strettamente religiosa. Già da questa visione scaturiscono problematiche di alto profilo, quali l’esonero dal servizio militare per gli ultraortodossi  e l’accesso a percorsi scolastici completamente diversi a seconda dell’appartenenza religiosa. In secondo luogo c’è la suddivisione tutta interna alla famiglia ebraica, tra ashkenaziti, sefarditi e mizrahi, fattore che svela un altro aspetto di forte frizione e di rivendicazioni sociali: le leve del potere ed il benessere economico sono appannaggio quasi esclusivo degli ashkenaziti, mentre i sefarditi e, ancor peggio, i mizrahi vivono ai margini e con redditi estremamente bassi. E’ anche e soprattutto da questa spaccatura della società ebraica israeliana che nasce la forte contestazione, con milioni di persone in piazza a protestare contro il governo Netanyahu. Si tratta di un movimento trasversale, dove a campeggiare non sono le bandiere dei partiti ma quelle con la stella di David e dove le voci ricorrenti chiedono e pretendono trasparenza e rispetto delle regole democratiche.

Su quanto la questione sia grave e colpisca direttamente la grande famiglia ebraica israeliana v’è un fatto che vale la pena sottolineare: la comunità umana (composta sia da uomini che da donne) dei riservisti dell’esercito sta subendo una lacerazione interna proprio sui principi di fondo del rispetto delle regole democratiche, di una maggiore giustizia sociale e, soprattutto, sulla necessità di rivedere i rapporti con la minoranza musulmana. Addirittura sta prendendo piede, non senza evidenti difficoltà ambientali, una vera e propria obiezione di coscienza e di rifiuto della divisa proprio da parte di molti appartenenti ai ranghi inferiori di Tsahal, che si rifiutano di partecipare a misure di repressione contro le popolazioni arabe. Anche la parola apartheid, usata per definire la condizione degli abitanti di Gaza e dei spossessati dai coloni ultraortodossi della Cisgiordania, non è più un tabù. Sempre più di frequente viene usata da ampi strati della società civile ebraica, consapevoli che la recrudescenza armata e la prepotenza di certe scelte non può essere utilizzata all’infinito contro una fetta di cittadini, di fatto paragonati ai coloured dei bantustan sudafricani ai tempi di Botha.

Sta forse cambiando qualcosa dentro lo stato di Israele? È possibile, ma in che misura e con quali tempistiche è difficile dirlo. Si possono fare alcune ipotesi.

1) Sia sul versante ebraico che su quello arabo sono ormai scomparse o stanno scomparendo per ragioni anagrafiche le generazioni che hanno combattuto e vissuto le guerre. Al contempo, gli studi demografici dicono che la popolazione israeliana sta numericamente crescendo in due fasce ben precise: quella degli ultraortodossi ebrei e quella degli arabi. Tra i primi vi sono addirittura correnti contrarie all’esistenza di Israele così come è attualmente strutturato, mentre tra gli arabi è ormai evidente una rottura generazionale tra i moderati dell’OLP e della ANP e le giovani generazioni. Queste ultime sono sempre più legate a movimenti radicali, tra i quali spicca la così detta Tana dei Leoni, composta di giovanissimi, che hanno trascorso l’intera loro breve esistenza rinchiusi entro i muri eretti dall’esercito israeliano. Generazioni senza alcuna prospettiva, animati da uno spirito nichilista tipico di chi sa di dover vivere in cattività, guardando il mondo attraverso lo smartphone. Ragazzi inferociti da una condizione di prigionia che li rende esplosivi ed irrazionali, pronti a qualsiasi atto pur di rompere le catene che impediscono loro di affacciarsi al mondo. Dall’altro lato della barricata, coetanei istruiti nelle scuole ultraortodosse dove si insegna che prima delle leggi dello stato vengono i principi talmudici e la Torah e dove cova un antisionismo estremo, fautore di uno stato teocratico governato dagli haredim. Una condizione questa ormai in via di cristallizzazione e progressivo peggioramento, che convinse l’ex presidente Reuven Rivlin, ortodosso ashkenazita del Likud, a dichiarare senza mezzi termini che in un paese dove la festa nazionale (Yon HaAtzmaut) di una parte corrisponde alla catastrofe (Nakba) di un’altra, non potrà mai essere uno stato binazionale. Se qualcuno non lo avesse ancora inteso, è l’ammissione più evidente del fallimento degli accordi di Oslo.

Data questa condizione si può dunque ipotizzare che nei decenni a venire difficilmente sarà raggiungibile il traguardo dello stato unico binazionale, contro il quale gioca il vulnus della mancanza di una costituzione scritta, cui sopperiscono leggi ordinarie, sempre candidate ad essere modificate a colpi di maggioranza semplice, come vorrebbe oggi Netanyahu.

2) Se lo stato unico binazionale appare traguardo irto di ostacoli quasi insormontabili, appare quasi un’ipotesi di pura scuola pensare alla possibilità che l’attuale Israele (con la ANP) evolva in due diverse entità statuali del tutto indipendenti l’una dall’altra. Ciò che solo in linea teorica è possibile, sembra praticamente impossibile nella realtà. Le ragioni sono tante ed estremamente articolate, ma le possiamo ricondurre a due macro motivazioni: a) la forza politica ed economica degli ortodossi e degli ultraortodossi ebrei è così evidente che è quasi impossibile pensare alla parcellizzazione di regioni come la Samaria e la Galilea in decine di enclaves etniche contigue. Per rendersene conto basta soppesare con un minimo di raziocinio la distribuzione degli insediamenti ebraici (peraltro in continua espansione) e dei villaggi arabi in una carta di quelle due aree geografiche, che gli ebrei ortodossi considerano il cuore territoriale della nazione ebraica (7). Fare della Galilea o della Samaria una quantità di coriandoli di territorio contigui tra loro, dove da una parte governa uno stato arabo e dall’altra lo stato ebraico, sembra cosa estremamente improbabile oltre che tecnicamente difficilissima. b) La soluzione dei due stati che sia rispettosa dei diritti umani di arabi ed ebrei (ovvero riconoscendo ad entrambi le medesime opportunità) comporterebbe una sorta di sfaldamento territoriale dell’attuale Israele, cui conseguirebbe una conflittualità aperta ed il rischio di una guerra civile tutta interna allo stato di Israele. C’è da credere che una simile ipotesi non è accettabile per una potenza planetaria come gli USA  e per potenze regionali come Arabia Saudita, Turchia ed Egitto, tutte raccolte attorno ad un unico principio, recitato come un mantra: stabilità.  

3) La soluzione che appare più verosimile di qui ai prossimi 5/10 anni è quella che vedrà Netanyahu e i suoi alleati di destra riuscire a barcamenarsi tra i marosi di una situazione tutt’altro che semplice, grazie alla capacità del primo ministro di convincere alleati importanti che la stabilità di Israele è moneta troppo preziosa per poter essere messa fuori corso. E tra gli alleati importanti ci sono indifferentemente tutte e tre le principali potenze planetarie, nessuna esclusa. Non importa se per convinzione o per convenienza. Se si aggiunge che i rapporti con potenze regionali come Turchia, Arabia Saudita ed Egitto sono comunque accettabili o in una fase di relativa calma, ecco dunque che i decisori di Tel Aviv di oggi e quelli che succederanno a “Bibi” avranno da guardarsi solo dall’acerrimo nemico di sempre (l’Iran sciita e i suoi fedeli alleati di Hezbollah) e dal disgregamento interno.

La prima causa di pericolo, sul tavolo ormai da decenni, troverà un fronte compatto ed interessato ad evitare problemi allo stato israeliano, per cui difficilmente ci saranno eventi straordinari rispetto a quanto già visto nel corso degli ultimi anni. Anzi, è da credere che le diplomazie ufficiose che lavorano sotto traccia faranno il possibile per evitare che lo scontro raggiunga livelli di non ritorno. Quanto alla seconda causa di pericolo, quella interna, si risolverà nel tempo con il prolungarsi di una “non soluzione”, Ciò significa che i fenomeni di attrito e di violenza interetnica continueranno, così come il progressivo allargarsi degli insediamenti dei coloni, in un avvitamento a spirale che porterà inevitabilmente uno stato senza costituzione scritta ad essere epigono del Sud Africa boero.

Tutti lo sapranno, ma pochi avranno il coraggio di dirlo e tanto meno di agire. La Real Politik ha pur sempre le sue regole.       

Fernando Volpi

17.06.2023

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Note:

1) Tra le tante dichiarazioni è emblematica quella di Silvio Berlusconi alla Knesset in occasione del suo discorso del 3 febbraio 2010. Vedi https://www.youtube.com/watch?v=r_NK-OnGOxw

2) La costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran, composta di 175 articoli, entrò in vigore il 3 dicembre 1979, mentre quella della Repubblica di Cuba nel 1959, successivamente modificata da ben due referendum costituzionali nel 1976 e nel 2019.

3) Non vi è alcuna certezza sul numero di testate atomiche detenute da Israele: si stima che siano da un minimo di 90 ad un massimo di 400, anche se il numero più probabile le fa attestare a 200 unità. Per un approfondimento dell’argomento è di grande interesse la Tesi di laurea di FRANCESCO IASEVOLI, Il programma nucleare israeliano: origini, finalità e componenti, LUISS, A.A. 2018/2019, relatore prof. GERMANO DOTTORI.

4) Con gli accordi di Oslo del 20 agosto 1993 tra Rabin ed Arafat fu stabilito l’autogoverno palestinese sulla Striscia di Gaza e su parte della Cisgiordania ed il riconoscimento dell’OLP come controparte di Israele nelle future questioni politiche e diplomatiche. Occorre ricordare che gli accordi, fortemente osteggiati dalla destra israeliana e dal Likud, costarono la vita al primo ministro israeliano Rabin, ucciso nel novembre 1995 da un colono ultraortodosso.

5) Israele contro Israele, LIMES, n.3/2023.

6) Discorso pronunciato dal presidente israeliano Rivlin il 7 giugno 2015 alla 15a Conferenza annuale di Herzliya. 

7) Vedi ELISHA BEN-KIMON, Viaggio a Huwwara barometro dei tempi, p.158,  in Israele contro Israele, LIMES, n.3/2023.

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